Dream Theater: Milano, 29 dicembre 2007
Calano dagli USA i 5 campioni del progressive metal per mettere in scena il loro consueto spettacolo fatto di arte e sapienza tecnica. Un solo aggettivo mi viene in mente per descriverli: sontuosi.
Dal punto di vista scenografico il concerto si rivelerà solo accettabile per un gruppo di tale fama ed esperienza: l'appetito visivo viene ripagato solo in parte da qualche banale effetto di luce e da un maxischermo che sembrava giusto buttato lì, poco valorizzato, sul quale scorrevano immagini di repertorio (videografico) e le riprese delle "mani" degli strumentisti on stage. Ma non è questo che cerca chi assiste a un concerto dei Dream Theater, quindi ci si passa allegramente sopra.
Sontuosi dicevo, sempre al confine tra il circo e la sinfonia, sospesi tra lo scherzo e la melodia, in bilico tra la tecnica e la malattia. Possono annoiare, ma sono capaci di emozionare. Quel che è certo è non passano inosservati. Sanno stare sul palco, te ne rendi conto fin dal primo accordo, ognuno ingigantito nel suo essere star indiscussa dello strumento: un set di tamburi e percussioni imbarazzante per Portnoy, un impressionante rack d'effetti per Petrucci, un "monolocale" di tastiere e sequencer per Rudess, un'essenzalità spinta per la postazione del basso di Myung (LaBrie andava e veniva come al solito con la sua asta sventolata verso il pubblico).
La setlist ha mostrato qualche buco, inevitabile per quei gruppi che hanno più di vent'anni di carriera discografica alle spalle (e in particolare per chi, come loro, ha dei "classiconi" da 10 minuti l'uno difficili da ripetere ad ogni concerto): hanno comunque spaziato dai loro esordi di Images & Words fino alle complesse suite degli ultimi (e criticati) dischi, passando per il melodico (si fa per dire) Metropolis pt.2 e per il lisergico Falling Into infinity; mi pare sia mancato all'appello il mio disco preferito, Awake, ma si vede che John non aveva voglia di imbracciare molto a lungo la sua 7 corde.
Capitolo suono: potente, concreto, sicuro, preciso. Inevitabile qualche riverbero di troppo in una struttura come il Datchforum che non è proprio un auditorium perfetto, ma un voto decisamente positivo ai tecnici che hanno permesso allo spettacolo di, semplicemente, "farsi sentire bene".
C'è un aspetto che stupisce e che lascia con le mandibole spalancate ad ogni esibizione dei DT: sono affiatati. Ci sono decine di gruppi che li possono eguagliare (e perché no, superare) in quanto a tecnica esecutiva e complessità compositiva, ma loro ci sanno dannatamente fare. Mai una sbavatura, mai un'incertezza percepita dagli astanti, mai un fremito di fronte a una stecca di qualche tipo. Tutto liscio.
L'esuberante Portnoy, dietro alla sua selva di piatti & tamburi, si agita come un pazzo roteando e lanciando bacchette a destra e a manca, suonando in piedi o seduto, cantando, agitando le mani per incitare i supporters (e indossando, mi è parso, una ruffiana maglietta della nazionale italiana). Uno spettacolo nello spettacolo, un gigante inarrivabile che unisce forza, fantasia, tecnica e showtime. Il solitario Myung, basso a 5 o 6 corde scatenato e lanciato lungo le strette vie cittadine percorse dalla loro musica: nessuna prateria vergine nella quale cavalcare in libertà, ma un intrico di passaggi e cambi di tempo nei quali far da guida e da contenitore ai suoi scatenati compagni di palco. Il tarantolato Rudess, folle agitatore di tastiere rotanti, che si perde in assoli dalle mille e una nota, che imbraccia una tastiera a mo' di chitarra (molto 80s) e scende in prima fila accanto ai due suonatori di corde per un terzetto spettacolare, che non vuole rssegnarsi al ruolo di tastierista nascosto e immobile dietro le ottave bianche e nere di una tastiera. Il sacrificato LaBrie, apparentemente l'unico un po' giù di forma, sia fisica che vocale: ma è sempre stato così, in perpetua alternanza tra periodi fulgidi e momenti di apannamento. E il leader John Petrucci, vero dominatore del palco, vero ipnotizzatore della folla adorante: si ritaglia molte volte (forse anche troppe) piccoli spazi per i suoi assoli frenetici e da sempre accusati di mancare di "feeling". Continua ad essere vero (anche se gli ho visto fare addirittura 4/5 bending durante la serata) e continua a piacere anche per quello. Ce n'è per tutti e sempre: intro, outro, passaggi centrali infiniti, uno wha wha posizionato al centro del palco perché quello è il suo posto nella storia e nei concerti dei Dream Theater, passaggi all'unisono con le tastiere a una velocità e con una precisione sovraumani. E un-suono-uno, pulito o distorto, senza vie di mezzo (forse ha giocato un paio di volte con li tono, ve lo concedo).
Se è necessario che una recensione si chiuda con un voto non mi avrete: il concerto mi è piaciuto, molto, ma forse sono di parte in quanto appassionato di chitarra, tecnica e nella parte di fan del gruppo in questione. Non mi nascondo che possa non piacere il genere, annoiare chi è in cerca di energia pura, risultare un'incomprensibile passione per chi la musica la intende come ritornello da canticchiare mentre lava i piatti. I DT sono tosti, spaccano il secondo, sbattono in faccia la loro superiorità tecnica, si compiacciono di loro stessi: ma non li cambierei con nessun Capossela (si fa per dire, eh) di questo mondo.
Dal punto di vista scenografico il concerto si rivelerà solo accettabile per un gruppo di tale fama ed esperienza: l'appetito visivo viene ripagato solo in parte da qualche banale effetto di luce e da un maxischermo che sembrava giusto buttato lì, poco valorizzato, sul quale scorrevano immagini di repertorio (videografico) e le riprese delle "mani" degli strumentisti on stage. Ma non è questo che cerca chi assiste a un concerto dei Dream Theater, quindi ci si passa allegramente sopra.
Sontuosi dicevo, sempre al confine tra il circo e la sinfonia, sospesi tra lo scherzo e la melodia, in bilico tra la tecnica e la malattia. Possono annoiare, ma sono capaci di emozionare. Quel che è certo è non passano inosservati. Sanno stare sul palco, te ne rendi conto fin dal primo accordo, ognuno ingigantito nel suo essere star indiscussa dello strumento: un set di tamburi e percussioni imbarazzante per Portnoy, un impressionante rack d'effetti per Petrucci, un "monolocale" di tastiere e sequencer per Rudess, un'essenzalità spinta per la postazione del basso di Myung (LaBrie andava e veniva come al solito con la sua asta sventolata verso il pubblico).
La setlist ha mostrato qualche buco, inevitabile per quei gruppi che hanno più di vent'anni di carriera discografica alle spalle (e in particolare per chi, come loro, ha dei "classiconi" da 10 minuti l'uno difficili da ripetere ad ogni concerto): hanno comunque spaziato dai loro esordi di Images & Words fino alle complesse suite degli ultimi (e criticati) dischi, passando per il melodico (si fa per dire) Metropolis pt.2 e per il lisergico Falling Into infinity; mi pare sia mancato all'appello il mio disco preferito, Awake, ma si vede che John non aveva voglia di imbracciare molto a lungo la sua 7 corde.
Capitolo suono: potente, concreto, sicuro, preciso. Inevitabile qualche riverbero di troppo in una struttura come il Datchforum che non è proprio un auditorium perfetto, ma un voto decisamente positivo ai tecnici che hanno permesso allo spettacolo di, semplicemente, "farsi sentire bene".
C'è un aspetto che stupisce e che lascia con le mandibole spalancate ad ogni esibizione dei DT: sono affiatati. Ci sono decine di gruppi che li possono eguagliare (e perché no, superare) in quanto a tecnica esecutiva e complessità compositiva, ma loro ci sanno dannatamente fare. Mai una sbavatura, mai un'incertezza percepita dagli astanti, mai un fremito di fronte a una stecca di qualche tipo. Tutto liscio.
L'esuberante Portnoy, dietro alla sua selva di piatti & tamburi, si agita come un pazzo roteando e lanciando bacchette a destra e a manca, suonando in piedi o seduto, cantando, agitando le mani per incitare i supporters (e indossando, mi è parso, una ruffiana maglietta della nazionale italiana). Uno spettacolo nello spettacolo, un gigante inarrivabile che unisce forza, fantasia, tecnica e showtime. Il solitario Myung, basso a 5 o 6 corde scatenato e lanciato lungo le strette vie cittadine percorse dalla loro musica: nessuna prateria vergine nella quale cavalcare in libertà, ma un intrico di passaggi e cambi di tempo nei quali far da guida e da contenitore ai suoi scatenati compagni di palco. Il tarantolato Rudess, folle agitatore di tastiere rotanti, che si perde in assoli dalle mille e una nota, che imbraccia una tastiera a mo' di chitarra (molto 80s) e scende in prima fila accanto ai due suonatori di corde per un terzetto spettacolare, che non vuole rssegnarsi al ruolo di tastierista nascosto e immobile dietro le ottave bianche e nere di una tastiera. Il sacrificato LaBrie, apparentemente l'unico un po' giù di forma, sia fisica che vocale: ma è sempre stato così, in perpetua alternanza tra periodi fulgidi e momenti di apannamento. E il leader John Petrucci, vero dominatore del palco, vero ipnotizzatore della folla adorante: si ritaglia molte volte (forse anche troppe) piccoli spazi per i suoi assoli frenetici e da sempre accusati di mancare di "feeling". Continua ad essere vero (anche se gli ho visto fare addirittura 4/5 bending durante la serata) e continua a piacere anche per quello. Ce n'è per tutti e sempre: intro, outro, passaggi centrali infiniti, uno wha wha posizionato al centro del palco perché quello è il suo posto nella storia e nei concerti dei Dream Theater, passaggi all'unisono con le tastiere a una velocità e con una precisione sovraumani. E un-suono-uno, pulito o distorto, senza vie di mezzo (forse ha giocato un paio di volte con li tono, ve lo concedo).
Se è necessario che una recensione si chiuda con un voto non mi avrete: il concerto mi è piaciuto, molto, ma forse sono di parte in quanto appassionato di chitarra, tecnica e nella parte di fan del gruppo in questione. Non mi nascondo che possa non piacere il genere, annoiare chi è in cerca di energia pura, risultare un'incomprensibile passione per chi la musica la intende come ritornello da canticchiare mentre lava i piatti. I DT sono tosti, spaccano il secondo, sbattono in faccia la loro superiorità tecnica, si compiacciono di loro stessi: ma non li cambierei con nessun Capossela (si fa per dire, eh) di questo mondo.
firmato: Limo
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